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DAL BALCONE DI JEANNETTE - UNO SGUARDO SULLA CITTA’ CHE CAMBIA
06/03/2012

Il balcone al primo piano della villetta dove abita Jeannette si affaccia sul cortile del quartiere.
Jeannette è la mamma di Bruno, mio marito, dolce signora nata nel Perigord giunta alla venerabile età di novantotto anni in condizioni di buona salute e di gradevolezza umana. Dalla Francia ha portato senso civico, la capacità di ironizzare sulle cose della vita, la seducente erre moscia che ancora continua a caratterizzare la sua parlata.
Dalla Francia è giunta in Italia negli anni 40, sposa giovanissima di un bergamasco emigrato nel suo paese alla ricerca di lavoro: abita in questo quartiere da sessant’anni, testimone di un pezzo di storia nel quale si addensano cambiamenti epocali.

Il quartiere dove abita Jeanette conserva i caratteri, decorosi e sensati, degli insediamenti postbellici edificati negli anni 50 dall’Istituto Autonomo Case Popolari (IACP) per rispondere all’incalzante bisogno abitativo degli anni della ricostruzione, offrendo alle famiglie varie tipologie di residenze in affitto.
La zona delle “villette” è composta da schiere di due soli piani con piccoli giardini di pertinenza: una serie di vialetti paralleli distribuisce i vari accessi alle unità abitative convergendo a cul de sac verso il cortile con aiole alberate su cui si affaccia il balcone di Jeannette.
Erano le case per impiegati, di livello superiore rispetto a quelle degli edifici pluripiano per operai che sorgono lì accanto: nel corso degli anni la totalità delle villette è stata riscattata dagli ex affittuari ed è attualmente di proprietà privata, organizzata in condominio. I residenti sono ancora in parte gli antichi affittuari o i loro figli, mentre in alcune case s’è verificato un cambio di proprietà e l’inserimento di nuove famiglie.

La zona che negli anni 50 era decisamente periferica, è oggi avvolta da nuovi insediamenti che, almeno nelle intenzioni degli urbanisti, dovrebbero alla lunga, trasformare questa parte di città in una nuova centralità.
Il quartiere delle villette, ben mantenuto dagli abitanti, evidenzia un decoro che difficilmente si ritrova in soluzioni abitative più recenti: i giardini sono fioriti, le tinteggiature delle facciate fresche e pulite. I vicini edifici pluripiano, ancora di proprietà dell’Aler (ex Iacp) e oggetto di ristrutturazione generale, sono invece da nove anni “ammutoliti” dalla presenza del cantiere che non finisce mai, rappresentazione clamorosa del fallimento del sistema degli appalti pubblici, che continua a essere un enorme punto di domanda sul presente di questo paese.

Jeannette abita il suo balcone: è lì che ti riceve quando vai a trovarla e il tempo consente di stare all’aria aperta. Tra i vari abitanti delle villette lei è una delle poche ad averlo mantenuto senza chiuderlo con serramenti in alluminio inglobandolo nell’interno.
Quello di Jeannette è ancora un balcone a tutti gli effetti, filtro intermedio tra lo spazio privato dentro e lo spazio collettivo fuori, tra l’intimità del chiuso e la socievolezza dell’aperto: seduta sul balcone Jeannette saluta chi passa, osserva chi va e chi viene, guarda la realtà del suo quartiere che cambia e si trasforma di anno in anno. Da quando ha problemi di mobilità e le gambe faticano a muoversi, il balcone è l’interfaccia principale tra Jeannette e gli altri.

La prospettiva che il balcone offre è quella ravvicinata di un microcosmo che si sviluppa intorno al cortile di trenta metri di lato: è una vista di dettaglio in cui la stabilità dello scenario consente di cogliere le variazioni degli attori che si muovono al suo interno.
Jeannette è attenta ai piccoli segni.
Guardando dal balcone, i racconti fluiscono numerosi, fondendo passato e presente, ricordi e riflessioni. Sono racconti minuti di esistenze ordinarie, uno sguardo tipicamente femminile, fatto di quotidianità e attenzione agli aspetti familiari, minimi, semplici.
Mi colpisce ogni volta l’attitudine biografica delle narrazioni, la capacità di collegare i vicini di casa in una trama fitta di rapporti di parentela, di ruoli precisi definiti dai mestieri esercitati, dalle abitudini di vita: noto ogni volta la differenza tra questo tipo di sguardo e il mio approccio distratto e frammentario da animale metropolitano che frequenta il mondo virtuale di internet e le visioni satellitari di Google Earth.
Le mie narrazioni non potrebbero mai essere come quelle di Jeannette e per questo mi piace tanto ascoltarla.
Nel suo racconto ogni casa è abitata da persone riconoscibili, chiare nelle loro identità, nelle loro vicende familiari, nei loro spostamenti, nei loro caratteri fisici. Pur non avendole mai viste credo che potrei riconoscerle se dovessi incontrarle.
Le descrizioni di chi abita oggi spesso si intrecciano con quelle di chi ha abitato ieri ed è morto, in una logica di discendenza che dà un senso alla vita e alle strutture familiari.
Lo sguardo dal balcone è attenzione e partecipazione alla comunità che abita e condivide lo spazio del quartiere.
Lei è la veterana tra i residenti anziani che hanno assistito alla nascita dell’insediamento e con lui sono invecchiati. Si vedono poco: gli anziani stanno in casa e si muovono sempre meno. So che esistono perché è Jeannette che me ne parla descrivendomi le loro vite e i loro caratteri.
Mi rattrista pensare a tutte le solitudini che stanno dietro le tapparelle abbassate: penso a come sarebbe facile, in fondo, decidere che nel piccolo quartiere possa esistere uno spazio comune dove trovarsi quotidianamente anziché vivere ciascuno nei propri spazi privati a distanza di pochi metri l’uno dall’altro. Spazi privati sempre più vuoti, famiglie di single con stanze dove abita l’assenza di chi non c’è più. Basterebbe davvero poco, qualcuno che si prenda l’iniziativa, che organizzi il proprio vuoto per accogliere gli altri. Penso con allegria agli anziani seduti per strada, fuori dalla porta nei paesi del meridione, insieme, a chiacchierare, a vedere e ad essere visti, parte integrante e non rimossa della società in cui vivono. Gli spazi comuni mancano in maniera patologica nei nostri quartieri.
La città del nord industriale fa paura, è aggressiva e inospitale se non hai buone gambe per camminare in fretta, buone orecchie per sentire le voci nel frastuono dei rumori di fondo, buona salute per respirare l’umidità inquinata. La città del nord è fatta per chi è forte e può ancora produrre.
Ma chi è forte non ha tempo per curarsi di chi non lo è. Basterebbe davvero poco: forse un piccolo investimento nei confronti di se stessi, pensando che la fine della stagione arriva per tutti e che, a quel punto, si raccoglie quanto si è seminato.

Le tapparelle di Jeannette sono sempre alzate: le piace la luce, le piace l’aria corrente. Per questo non ha chiuso il balcone con l’alluminio.
Guardandola guardare non posso fare a meno di pensare a Jane Jacobs e a come la città potrebbe essere più interessante e umana se potessero progettarla le donne.
Sentendola raccontare avverto la distanza a volte inquietante tra i bisogni di chi abita e i modelli organizzativi di chi progetta la città. E, continuando, mi balza alla mente l’immagine fulgida di Majora Carter, donna, giovane, nera, che ha deciso di riversare la sua straordinaria energia nello sforzo di ridare al quartiere ghetto in cui è nata - il Bronx – la dignità di un luogo in cui la comunità possa davvero vivere.

I micro segni che si colgono dal balcone al primo piano, rendono concreta l’esperienza di fenomeni molto più ampi.
Da qualche tempo l’abitazione sul fondo del cortile è stata affittata ad una famiglia di senegalesi che hanno generato nuovi flussi vitali nello spazio del cortile. Spesso ricevono visite di connazionali e le stanze della loro abitazione sono sempre piene, sovraffollate di persone che vanno e vengono, mentre il cortile si popola di nuove corporeità, evidenti, giovani, colorate, che sottolineano, in contrasto, le tapparelle chiuse e il progressivo rintanamento degli abitanti più anziani, soli nelle loro case vuote.
L’altro giorno uno dei vialetti è diventato il punto di ritrovo di un gruppo di donne ucraine, in attesa del pullmino che di lì a poco sarebbe arrivato a caricarle insieme ai pacchi di mercanzie varie, per portarle al loro paese. Donne di pelle chiara, bionde e di corporatura forte, presenze transitorie in una città che ha bisogno di cure vigorose e dolci per far fronte all’invecchiamento della popolazione.
Erano lì perché in una delle villette lavora una loro compagna come badante di una signora anziana.
Sono molto organizzate: quando una di loro deve tornare a casa si preoccupa di trovare chi la possa sostituire nel periodo di assenza.
Tornano in Ucraina per particolari occasioni familiari: il matrimonio di un figlio, il funerale di un genitore.
Nuovi flussi, nuovo sangue che irrora, rigenerandolo, il tessuto sociale che tende ad atrofizzarsi e a restringersi.

Jeannette è molto attenta: anche lei al suo arrivo in Italia era straniera e ricorda di come i parenti bergamaschi pensassero che le donne francesi fossero tutte delle “poco di buono”, use al rossetto e ad abiti provocanti.
Per i nuovi abitanti le mancano storie e biografie: chissà da dove vengono, chissà perché sono qui, chissà che cosa fanno.
Certo è che la non conoscenza è negativa, perché quando non sai nulla di una persona prevalgono i luoghi comuni, i pregiudizi e i massimalismi. Mi chiedo cosa pensino i vecchi abitanti di queste nuove presenze e se, dietro le loro difese, avvertano con pericolo l’ appropriazione degli spazi che da sempre sono i loro da parte di corpi sconosciuti.
Bisogna creare legame tra le persone che condividono gli spazi di un quartiere, conoscenza reciproca.
Basterebbe davvero poco, l’idea che un condominio prima ancora che un’entità amministrativa, sia un luogo di relazioni umane fondamentali per dare un senso al nostro abitare tra gli altri.
Forse per ogni nuovo arrivato si potrebbe organizzare un ricevimento in cui presentarlo a chi c’è già, in cui discutere le regole del vivere insieme, del condividere gli spazi.

Per troppo tempo ci siamo dimenticati che la città è per la gente che la abita.
Lo sguardo di Jeannette ci aiuta a ritrovare il senso finale del nostro progetto.

PS.Jeannette ci ha lasciato il 21/07/2016 dopo un secolo di vita: il 12/08 avrebbe compiuto 101 anni. La ricorderemo per la sua gentilezza, il suo ottimismo contagioso, l'amore per i fiori e il buon cibo, i lunghi racconti sul balcone della casa che amava moltissimo.